Foro di Nerva
Iniziamo col dire che come il Foro della Pace in realtà non è un foro, così il Foro di Nerva, in realtà non è di Nerva. Confusi? Vi spiego. Il Foro romano era il cuore della vita politico-sociale dell’Antica Roma. Alla fine della Repubblica quella che un tempo era una piccola città tra le tante dell’Italia centrale era divenuta in breve tempo una metropoli, capitale di uno sconfinato territorio in continua espansione. Il costante afflusso di prigionieri, schiavi, mercanti, commercianti, artisti in cerca di committenze danarose o semplici cittadini in cerca di fortuna aveva portato ad un esponenziale aumento della popolazione. Giulio Cesare, che oltre ad essere un grande generale era uno scaltro politico, comprese il valore propagandistico della possibilità di legare il suo nome al foro. Approfittando del necessario restauro della Curia, distrutta durante la guerra civile, costruì una nuova grande piazza alle sue spalle e vi pose un tempio dedicato a Venere, la sua Venere, che in opposizione a quella Vincitrice di Pompeo era la Genitrice, madre della natura sì, ma soprattutto di Enea, e con lui di Iulo e di tutta la gens Iulia. Il ritorno d’immagine fu un successo, e così che Augusto, che in quanto a capacità di propaganda superava anche il divino padre, dedicò un altro foro.
Qui il messaggio si faceva ancora più esplicito, al termine di due porticati paralleli decorati con le statue dei grandi Romani e dei membri più eminenti della sua gens, si trovava il tempio di Marte Ultore, il dio che aveva vendicato Cesare e le sconfitte romane di Teutoburgo e Canne. Inoltre, visto che doveva essere ben chiaro a chi si doveva tanta grandezza, ecco una sala con una statua dell’imperatore alta 12 m. (di cui ci restano, ahimè, solo i resti del palmo di una mano, un dito e un occhio esposti ai Mercati di Traiano).
Vespasiano, dal canto suo, non voleva fare un foro, ma solo edificare il maggior numero di edifici pubblici sul terreno appena liberato dall’ingombrante Casa d’Oro di Nerone. Insieme al figlio Tito trasformò l’intera area in un grande quartiere su cui sorsero in tempi record l’Anfitetaro Flavio, le Terme e l’Arco di Tito e il Tempio della Pace, la pace restituita ai Romani dopo l’Anarchia Militare, la pace restituita all’Oriente con la presa di Gerusalemme, della quale – come in un museo – qui si esponevano le spoglie. Un grande tempio con un bel piazzale, decorato di fontane o grandi aiuole, con marmi preziosi e una grandiosa planimetria della città nella sala adibita ad ufficio del catasto.
Domiziano, secondogenito di Vespasiano, succeduto al fratello prematuramente morto (o ucciso), continuò l’opera. Realizzò così i sotterranei del Colosseo e decise di costruire un nuovo foro. Il problema era lo spazio, che nell’area tra la Suburra e la Velia, era totalmente esaurito. Espropriare le case dei poveri di Roma, dopo che il padre aveva impostato tutto il suo piano urbanistico sulla restituzione al popolo di quanto un dispotico imperatore aveva reso privato non era una buona idea, così si accontentò del poco spazio rimasto libero, una lingua di terra lungo l’Argileto che dalla Suburra portava al foro Romano. Il suo foro era stretto e lungo, un corridoio più che una piazza, talmente angusto che non fu neanche possibile fare un vero porticato, visto che le colonne si addossavano direttamente al muro di cinta. In fondo un tempio era dedicato alla dea che in varie occasioni lo aveva tolto d’impaccio: Minerva. Forse alla dea non piacque quella soluzione, forse semplicemente la moglie Domizia non gli perdonò i troppi sfacciati tradimenti e il suo entourage la sua gratuita crudeltà, fatto è che il Dominus ac Deus fu ucciso da una congiura.
Fu così che l’anziano Nerva si ritrovò imperatore, con un foro bello e pronto cui mancava praticamente solo il nastro dell’inaugurazione da tagliare. Ecco perché il foro di Domiziano si chiama di Nerva. La realizzazione di via dell’Impero finì per tagliare in due il perimetro di questo foro, oggi finalmente accessibile nel lato che affaccia verso il foro Romano. Di grande interesse sono qui i resti delle case carolinge che furono realizzate in età medioevale a ridosso del muro di cinta del foro, che garantiva protezione e utile materiale edilizio. Per avere un’idea di come dovessero essere potete trovare un plastico che le ricostruisce nella loro interezza al Museo Nazionale della Crypta Balbi. Indubbiamente però la parte meglio conservata è quella verso la Suburra. Peccato che papa Paolo V all’inizio del Seicento abbia fatto smontare ciò che restava del tempio di Minerva per costruire la mostra dell’Acqua Paola al Gianicolo. Restano però le Colonnacce, i rilievi con il racconto del mito della sfrontata Aracne, e una Minerva che guarda impassibile i turisti passare.