Arco di Settimio Severo
Quest’arco è uno dei tre grandi archi trionfali che si sono conservati fino ai giorni nostri. Risale al 203 d.C. Se potessimo denudarlo troveremmo al suo interno un cuore di laterizi e travertino, ma per fortuna in questo caso l’involucro di marmo si è conservato. La prima cosa che salta agli occhi guardandolo è lo straordinario numero di figure che ornano i suoi rilievi. J.J. Winkelmann, uno dei più grandi storici dell’arte antica mai esistiti, ci ha convinto che l’Antichità fosse in bianco e nero. In realtà il mondo antico era in technicolor, una vera esplosione di colori. Tutto era colorato, anche i templi, le statue e i rilievi. Le immagini, con i loro colori e talora con le loro applicazioni in metallo (di armi, gioielli, ecc..) erano facilmente visibili anche quando poste a molti metri di altezza, come nel caso dell’arco di Settimio Severo. Se riuscissimo ancora a distinguere le figure che si ammassano nei rilievi dell’arco potremmo osservare concitate fasi di una guerra, quella che l’imperatore condusse contro i Parti, una delle due spine nel fianco dell’Impero. Le scene non sono infatti fantastiche, ma ispirate a reali episodi di battaglia, i Romani erano precisi anche in questo. Gli scalpellini romani copiarono alcuni degli arazzi portati a Roma dall’Imperatore per il suo trionfo. Cartelloni pubblicitari. Gli arazzi venivano infatti esposti durante il trionfo per mostrare, a coloro che non avevano preso parte alla guerra, come si era svolto lo scontro, come le truppe fossero riuscite a conseguire la vittoria.
Le stesse difficoltà che si incontrano oggi guardando i rilievi, si riscontrano nel provare a leggere l’iscrizione. Salvo che per qualcuno dotato di dieci decimi, quel testo in latino a circa 20 m di altezza risulterà un po’ difficile da leggere. Anche le iscrizioni erano colorate, di rosso per la precisione, tecnicamente si definisce quest’uso rubricatura. Quando non si applicava il colore, come in questo caso sull’arco, si alloggiavano delle lettere bronzee negli incavi scolpiti nella pietra. Aguzzando la vista e fissando la quarta riga dell’iscrizione, il fondo appare leggermente abraso, e vi sono dei buchi per le grappe che reggevano le lettere che non coincidono con le parole ora visibili. Siamo di fronte ad un caso tipico di damnatio memoriae, ovvero all’eliminazione sistematica del ricordo di qualcuno. Il qualcuno in questione è il povero Geta, sfortunato fratello di Caracalla. Alla morte del padre Settimio Severo, Caracalla fece infatti uccidere il fratello, e per far dimenticare il più presto possibile il suo misfatto, “cambiò il suo stato di famiglia”, cancellando ovunque il ricordo, e dunque l’esistenza stessa, del malcapitato. In realtà lo stato di famiglia fu accorciato ulteriormente: su un altro arco, quello degli Argentari al Foro Boario, non solo fu cancellato il ritratto di Geta, ma anche i volti di Plautilla e Plauziano, moglie e suocero del buon Caracalla. Ma questa è un’altra storia…
Sulla sommità dell’arco svettava una grande quadriga bronzea. Sono solo i fori delle grappe e dei perni che la sorreggevano, e una moneta, a ricordarcelo: come quasi tutti i bronzi della città, infatti, il prezioso metallo fu rifuso. Nel Medioevo sull’arco venne eretta una torre, e nei suoi pressi fu costruita una chiesa dedicata ai SS. Sergio e Bacco. Costruzioni che vennero distrutte però già nel Cinquecento.